Ritratto di Luis Vinicio, ‘O Lione

Il più grande allenatore della storia irpina

NELLA TANA DEL LEONE

Io di Vinicio ho un nitido e particolare ricordo personale. Alle soglie del nuovo millennio, alcuni amici mi portarono a casa sua, ormai settantenne e con un’anca in disuso, per convincerlo a fare da opinionista fisso in TV. Nella sua bella casa in via Manzoni, la vista panoramica del superbo Golfo di Napoli si apriva dal salotto ai nostri occhi. La signora Flora, bellissima come sempre, dolcissima come mai (“Mi ritorni in mente, bella come sei, forse ancor di più, mi ritorni in mente, dolce come mai“, fu il motivo di Lucio Battisti che subito mi venne alla mente), moglie premurosa, assisteva il marito con dedizione assoluta. Un rapporto bello ed indissolubile, da allargare i cuori.

O’ Lione era imponente come sempre, arzillo e battagliero per quanto acciaccato, e qualche piccolo difettuccio di memoria veniva subito soccorso dalla signora Flora. Come si chiamava quel centromediano dell’Avellino, il più cattivo di tutti, quel marcantonio con Di Somma, Flo’? Cattaneo, subito la moglie. Ed i racconti nel suo accento italo-brasiliano inconfondibile, scorrevano cadenzati, come il ritmo ossessivo delle sue squadra.

Io lo guardavo adorante. Lui, il mio mito adolescenziale. Folgorato come lui sulla via di Damasco, anzi di Amsterdam, dall’Ajax di Cruijff e dal calcio totale dell’Arancia Meccanica olandese, avevo convinto il mio allenatore a giocare a zona, difesa alta e fuorigioco. Quanti gol che prendevamo così!

FESTA CARIOCA

Ma correvo al San Paolo per rifarmi gli occhi, ed il battesimo del fuoco lo ebbi in Napoli-Juventus all’inizio del campionato del ’73, io studente ginnasiale e portiere di belle (e poche) speranze.

Quel giorno il mio idolo non era più dei nostri, tutto di nero vestito, guanti pure neri di lana, ma bordino bianco, odioso, attorno al colletto. Parava per la Juve, il mio Mito Superdino, lui taciturno e friulano, grande appassionato di automobili da corsa, amato come nessuno a Napoli per 5 anni, venduto per motivi di bilancio (ahi, la solita solfa) dal “maledetto” Ferlaino, sarà per questo che l’ho odiato tutta la vita.

Mi accomodai in tribuna, settore F, biglietto costosissimo, mi ero svenato (“mi costa una vita“, canticchiavo sempre ricordando il Grande Lucio) per stare con il mio facoltoso amico Cucco che, di due anni più grande, era abbonato lì, e mi faceva da guida, lui che si era fatto soprannominare Gedeone in omaggio al nuovo pippero, pardon, pipelet del Napoli, Carmignani.

Ma quel giorno Gedeone fece solo una parata, bella – che boato del pubblico! – nel secondo tempo. Fu un dominio totale.

Io avevo gli occhi luccicanti nel vedere quell’onda azzurra invadere la metà campo bianconera, stringere alle corde quei tanti campioni in maglia strisciata, e vedevo il tetragono Zoff con due mani a tenaglia bloccare tutto, ma proprio tutto. Quel Napoli correva a folate, entusiasmanti, l’urlo dei 70.000 li accompagnava, e quel diavolo del negretto, Jarbas Faustino detto Cané – quello che il comandante Lauro prese perché da una foto vide che era troppo brutto e pensò che brutto com’era avrebbe fatto sicuramente paura ai difensori; quello che la folla gli urlava (generosamente) “Didì, Vava e Pelé, sit’ ‘a ‘uallera e Cané”, con tipica esagerazione tutta partenopea – scoccò una folgore nel sette alla sinistra del Dino Nazionale. E quello che fa? Vola a due mani e va a bloccare! La mia carriera di portiere finì lì. Ammirato e triste: io non sarò mai così. Da quel giorno il calcio pensai più a raccontarlo che a giocarlo, da guardone dello Sport.

Ma Cané era ed è uno tosto. Allo scadere del tempo ci riprovò, e stavolta il missile batté l’incolpevole portierone, fino a quel momento baluardo insormontabile. Lo ricordo ‘O Lione in piedi vicino la panchina. Un condottiero, ieratico, carismatico, emanava un’energia pazzesca, era lui l’artefice di quel miracolo. Il pubblico lo amava incondizionatamente. Lui, esordiente in serie A, con esperienza partenopea all’Internapoli in C con Pinotto Wilson e Long John Chinaglia, ed un po’ d’esperienza maturata in B a Brindisi, da cui si portò poi La Palma e Boccolini. Ma lui era ‘O Lione, l’idolo di sempre. E tanto bastò.

Quel Napoli vinse quel giorno, col bel gioco, e dominò la scena per un paio d’anni, fermato solo da un “coniglio” e “core ingrato”, un fuoriclasse furbo e fetente, José Altafini, che a Torino con la maglia non colorata dopo sette anni di gol azzurri spense in gola, nella strozza, ad un intero popolo affamato di vittorie l’urlo dello scudetto tanto agognato.

LA LEGGENDA DI ‘O LIONE

Il popolo napoletano ha dovuto aspettare l’epopea di Maradona, ma fino ad oggi il Napoli più bello, quello di cui si parla ancora nelle favole dei posteri, resta nell’immaginario popolare quello di Vinicio, ‘O Lione che quando venne dal Botafogo – dove giocava in un trio delle meraviglie con Garrincha e Da Costa – al sole di Napoli divenne un idolo in 40 secondi, il tempo di fare il primo gol. E sempre lui inaugurò nel ’59 il San Paolo, oggi vetusto e fatiscente, con una semi-rovesciata da brividi che batté la Juve, sempre lei ricorrente.

Lui che segnò gol a grappoli, e formò con Jeppson, ‘O Banco ‘e Napule perché pagato 105 milioni dell’epoca (una follia), la strana coppia, che non funzionò. Jeppson emigrò per altri lidi, ‘O Lione con il Petisso Pesaola, altro mito ricorrente della storia partenopea, compose un coppia inossidabile e fantastica, di stampo partenopeo-sudamericano, perché entrambi poi sono diventati figli di Napoli, e qui rimasti a vivere per sempre.

I dissidi con Ferlaino di Vinicio, carattere tosto, furono proverbiali, e le furbate dell’Ingegnere, a lui – uomo tutto di un pezzo – proprio non scendevano. Sbatté la porta, e non fece a tempo a coronare la sua opera con la Coppa Italia alzata al cielo pochi mesi dopo con il fido Del Frati ed il prezioso Rosario Rivellino in panchina in sua vece.

IMPATTO CHOC, CALCIO CHAMPAGNE

In realtà Vinicio la porta l’aveva già sbattuta dopo un sol giorno di ritiro, appena approdato a Napoli. Lui era arrivato con la fama di Sergente di Ferro e di preparatore atletico implacabile. All’epoca faceva tutto l’allenatore. Dopo il primo allenamento la squadra, massacrata di brutto, a cena si lasciò andare ad ozi e vizi, il bicchiere di troppo, la mangiata di troppo. Luis annusò l’aria e disse: non fa per me.

La mattina dopo Rivellino scese nella hall e lo trovò con i bagagli fatti. Sorpreso, gli chiese (me l’ha raccontato lui in persona): “Mister, ma dove va?” E lui a brutto muso: “Me ne vado, io queste cose non le accetto, qui non c’è disciplina, cultura del lavoro, non fa per me”. “Aspetti, Mister, aspetti”, e trafelato Rivellino corse dal Gran Capitano, in arte Totonno Juliano. “Antò, questo se ne va!” “Chi?” “Il Mister! Fa qualcosa”. “Fallo aspettà!” Il capitano chiamò a raccolta la squadra e disse: “Guagliù, che vulimm’ fa? ‘O stamm’ ‘a sentì?” La squadra assentì. “Mister rimanga, la seguiamo”. Lì al Ciocco gli azzurri sputarono sangue dietro ‘O Lione, ed il Napoli volò. Quanto correva quella squadra! Juliano a dirigere l’orchestra aiutato dal Professore, Ciccio Esposito, Birillo Orlandini ad affondare sulla fascia destra, Giorgio Guitar Braglia da Foggia con la chitarra e la criniera a slalomare in dribbling a sinistra, El Gringo Clerici a ingobbirsi e picchiare tutto ciò che aveva la parvenza di un difensore, il carioca Cané e poi Peppiniello Massa dalla Loggetta ad incunearsi tra le linee, furbi e letali come solo due scugnizzi sanno essere. Vedere Burgnich, mastino marcatore di tante battaglie catenacciare dell’Inter herreriana, giocare da libero a zona fu uno spettacolo. E che spettacolo!

Il giocattolo si ruppe quando l’Ingegnere, per fare cassetta, alias abbonamenti, comprò Beppe-gol Savoldi ma non per affiancarlo al Gringo Clerici, la chiave d’attacco del gioco di Vinicio, ma per sostituirlo.

L’assalto allo scudetto fallì e Vinicio sbatté la porta. Si concluse un ciclo e si concluse un’epoca, ma se ne aprì idealmente un’altra: perché il Napoli di Vinicio fu la prima squadra a sdoganare il “calcio totale” in Italia, pioneristica ed innovativa.

L’ESPERIENZA LAZIALE

E Vinicio se ne andò per lidi laziali. Ma lì c’era stato Maestrelli, il buon padre di famiglia, che in un ambiente a dir poco turbolento ed un po’ fanatico come quello laziale aveva saputo toccare le corde giuste per tenere insieme gente difficile assai, da Martini a Chinaglia, da Wilson a Re Cecconi.

Quella squadra aveva già raggiunto l’apice, vinto uno storico scudetto, e con Vinicio espresse bel calcio ma non riuscì più a primeggiare. Dopo un buon primo anno, con il quinto posto in campionato, l’anno dopo il tecnico brasiliano venne esonerato.

RITORNO ALLA BASE

Fece ritorno a Napoli, ma le minestre riscaldate non funzionano quasi mai. La sua carriera di tecnico sembrava alla fine.

Ma la parabola del Leone di Botafogo non si era affatto conclusa, come non si era conclusa da giocatore dopo l’allontanamento da Napoli. Mal utilizzato a Bologna, svernò a Vicenza dove finì in tarda età da capocannoniere per poi arrivare nella Grande Inter di Herrera!

IL TERREMOTO IRPINO IN CAMPO E FUORI

A chiamarlo nell’80 – l’anno del terremoto che devastò l’Irpinia – fu il Commendator Sibilia, per salvare l’Avellino agonizzante e penalizzato dal Calcio Scommesse, una favola in serie A di cui tutti preconizzavano l’imminente fine.

Vinicio, con una banda di bucanieri, firmò invece una storica salvezza, partendo da -5, lascito del primo scandalo-scommesse della nostra Storia Patria, quello dell’80, quello di Trinca e Cruciani, per intenderci, che colpì gente come Paolo Rossi, Giordano, Manfredonia, etc.

Quella irpina fu una squadra solida ma anche bella. La difesa era fatta di marcantoni, guidata da uno splendido capitano, lo stabiese Di Somma, tra i pali l’emergente Tacconi, a centrocampo gente di carattere ma anche di classe, come Vignola e Criscimanni, e davanti l’uomo che danzava attorno alla bandierina, il guizzante negretto brasiliano Juary, poi sostituito l’anno dopo da un uomo del Sud che amava andare in bicicletta (il suo colpo preferito), Vito Chimenti. Vidi quell’Avellino in un derby al Partenio, 0-0. Era una squadra tosta assai. Andai ad intervistare Claudio Gentile dopo il Mondiale del ’78, prima di una trasferta ad Avellino, con la Juve che alloggiava a Vietri sul Mare. Gheddafi, come lo chiamava Brera, mi disse di temere quella banda di bucanieri, ed ebbe ragione. Perfino la Grande Juventus si piegò alla legge dei lupi irpini del Partenio. Lì non si passava.

Anche se Vinicio non riuscì a ripetersi l’anno dopo, sostituito in corsa da Tobia, a cui lasciò comunque una squadra in grado di salvarsi,  ad Avellino Luis Vinicio ha scritto una pagina di storia veramente importante. La salvezza dell’80, tra penalizzazioni e terremoto, fu un’impresa storica che vale forse più dello scudetto sfiorato a Napoli.

Ed ancor più importante fu il ritorno ad Avellino nell’anno 86-87. Ma chi l’ha detto che le minestre riscaldate non funzionano? A volte sì. Richiamato a furor di popolo dal Commendator Sibilia, batté i record della Storia dei Lupi con 30 punti ed ottavo posto, finendo a pari punti ma perfino sopra al Napoli nel computo finale.

La maledizione del secondo anno però purtroppo si abbatté di nuovo su di lui: esonero l’anno successivo e squadra a Bersellini, che non riuscì ad evitare la retrocessione dopo 10 anni di militanza in serie A senza soluzione di continuità.

LA LEGGENDA CHE CAMMINA

La sua parabola di allenatore finì poi tra Pisa ed Udine. Ma non vi è dubbio che a Napoli ed Avellino il vecchio Leone ha messo a segno le zampate più belle.

A Napoli la sua squadra, pur vincendo solo una Coppa Italia senza di lui, è diventata leggenda nella memoria degli aficionados azzurri, sfiorando uno scudetto storico, sarebbe stato il primo di sempre, giocando un calcio stellare.

Ad Avellino, nonostante l’esonero finale e la retrocessione conseguente, Luis Vinicio è senza dubbio il più grande allenatore nella storia di questo club: con la storica salvezza a 30 punti di cui 5 di penalizzazione, l’ottavo posto dell’87, miglior risultato della storia irpina, a 30 punti (massimo punteggio di sempre), ed 86 presenze sulla panchina irpina in serie A (recordman), ha scritto le pagine più belle e luminose che i tifosi dei Lupi irpini ricordino.

Ora Vinicio passa sei mesi a Napoli e sei mesi a Belo Horizonte, nella sua terra natia, rincorrendo il sole, che fa tanto bene alle sue ammaccate articolazioni.

Ma è leggenda che cammina.

Un sognatore, un profeta del calcio nuovo, uno che ha dato spettacolo, e che la gente ferma per strada con devozione e rispetto.

Lui si apre con quel sorriso franco, mascella quadrata e volitiva, da vecchio leone, soddisfatto.

Il re della foresta non ha nessuna intenzione di abdicare alla vita.

Grazie, Lio’.

 

Napoli, 31 maggio 2016

Umberto Chiareillo

Tratto da: Felice D’Aliasi, Lupi per sempre, Avellino 2016.

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