Lettera a un amico romanista
Lettera semiseria di un laziale a un romanista a seguito della vittoria biancoceleste nel Derby della Capitale
Caro amico romanista, no, non ti prenderò per il culo. Innanzitutto perché ci riesci già benissimo da solo. Quando perdi è sempre colpa di qualcun altro: l’arbitro, i poteri forti, la sfortuna… Secondo, perché ti fai prendere in giro pure da Mourinho, che è un grande allenatore ma pure un gran paraculo e ha capito qual è lo sport preferito dai tifosi romanisti: lamentarsi.
Il fatto è che non sai accettare la sconfitta, perché non sai cos’è. Io, al contrario, lo so bene: nascere laziali significa conoscere la sofferenza, la delusione e l’amarezza da sempre, fin dai primi vagiti. Significa essere l’unico nella tua classe, oppure in netta minoranza, ad essere biancoceleste. A subire angherie e vessazioni dagli altri, soprattutto il giorno dopo un derby perso, quando trovavi il tuo banco ricoperto di sciarpe giallorosse.
Perché vedi, caro cuginetto, tifare, e scegliere di tifare, ogni domenica la tua squadra del cuore quando sei piccolo, a 10-11-12 anni, mentre letteralmente tutti i tuoi amici ti fanno il tifo contro, quando l’unica gioia che puoi provare a fine campionato è la salvezza a fine stagione, ti fa crescere una corazza caratteriale e una comprensione umana per la sconfitta non indifferente. Crea una vicinanza con gli ultimi, ti fa comprendere meglio le sofferenze e le disfatte altrui, ti fa empatizzare con i più maltrattati, i più bistrattati.
Non ho mai provato simpatia per i meridionali che tifavano Milan, Inter e Juventus. Troppo facile, a tutti piace vincere. Ecco perché godo come un riccio quando la Cremonese o il Lecce vincono contro una blasonata o quando il Camerun vinse con l’Argentina ai Mondiali del ’90 e ho tifato come un matto il Marocco agli ultimi mondiali della vergogna in Qatar. Per me, 11 anni in B non sono un’onta, sono un orgoglio e un ricordo bellissimo, quando mio padre mi portava a vedere sfide noiose ma combattute contro la Triestina o il Pisa.
Come quando ci salvammo da un’infame retrocessione in C nel campionato 86/87, quello del -9 e io, guarda caso, avevo 9 anni. Fu un cardiopalma indicibile, attaccati alla radiolina a transistor… prima un gol di Fiorini all’82’ contro il Vicenza, che valse gli spareggi con Taranto e Campobasso e poi, persa la partita col Taranto, quello di Poli contro il Campobasso. Si giocava al San Paolo di Napoli:
25.000 paganti di cui 20.000 laziali. Ventimila. Per un play-off, si direbbe oggi, di serie B. Era un altro calcio e io avevo appena imparato il significato dell’espressione “passione sportiva”. Era la Lazio di Fascetti, un mito per noi, un visionario, un maestro di salvezze e promozioni impossibili e, soprattutto, un uomo umile. Tutto ciò mentre il Napoli vinceva il suo primo scudetto. E quando capitava di battere qualche big era una festa per tutta la settimana, se non per mesi, perché le gioie migliori sono quelle inaspettate.
Ancora ricordo un’incredibile partita al Flaminio proprio contro il Napoli di Maradona, Careca e Alemão, nell’anno domini 1989. Ironia della sorte, la prima e ultima volta che vidi “El pibe de oro” dal vivo su un campo di calcio non strusciò una palla. Fini 3 a 0 per la Lazio, li abbiamo asfaltati. Due gol li fece “Ama-Ama-Amarildo”, il brasiliano evangelico che regalava Bibbie agli avversari prima di ogni partita. In seguito il Napoli andò a vincere il suo secondo scudetto. Guarda caso anche quest’anno lo vinceranno e anche quest’anno li abbiamo battuti, unica squadra a riuscirci fino ad ora.
Oppure quando vincemmo lo scudetto nel 2000, l’anno del centenario. L’avevamo sfiorato l’anno prima e sembrava fossimo destinati a perderlo pure quell’anno, quando alla penultima giornata l’arbitro De Santis, poi condannato per Calciopoli, annullò un gol regolarissimo di Cannavaro al 90º in Juventus-Parma, fischiando un inesistente “fallo di confusione in area” e pregiudicando anche la qualificazione dei parmensi in Champions, nonché, pensavamo, lo scudetto per la Lazio. Si era consumata la morte del Calcio, a cui la Curva Nord fece un simbolico funerale nell’ultima giornata, entrando in processione luttuosa allo stadio dopo 15 minuti dall’inizio dell’ultima partita contro la Reggina.
Io neanche volevo andarci quel giorno all’Olimpico, ma mio fratello insistette: “È una bella giornata, andiamo lo stesso”. Non avevamo nemmeno i biglietti, li comprammo direttamente al botteghino. Il resto è storia: il sole a Roma, la pioggia stile nuvola di Fantozzi a Perugia, dove il Milan l’anno prima vinse lo scudetto davanti a noi. Gente sconosciuta che si abbracciava sugli spalti e in mezzo al campo, perché avevano aperto i cancelli e stavano diffondendo la telecronaca dell’altra partita per tutto lo stadio, in un’atmosfera surreale.
Tornai a casa con una zolla della linea di porta, lato sud. Ancora ne conservo dei fili d’erba in un cassetto. Un ricordo indelebile. Stavolta la gioia più grande ce la regalò Carletto Mazzone, allenatore dei grifoni ma romano e romanista, pensa un po’, proprio lui! Avevamo vinto “contro tutto, tutti e Totti”, come era scritto su uno striscione.
Essere laziali oggi, invece, significa sorbirsi sguardi di malcelato fastidio o di aperto stupore quando tenti di spiegare che no, non siamo tutti fascisti, e che l’estremismo di destra nelle curve è una piaga dappertutto, anche in Curva Sud, solo che al Corriere “di Trigoria” e nelle altre redazioni non fa notizia.
Qualcuno ha sentito parlare per caso, in tv o sui principali giornali, dello striscione esposto a due passi dal Colosseo l’altro giorno da un gruppo ultras romanista, a commemorare il neofascista Concutelli? O quando l’AS Roma vinse la Conference l’anno scorso e molti dei suoi tifosi sfoggiarono una maglia con su scritto “Roma marcia ancora”, facendo il saluto romano in tribuna?
No, noi non godiamo quando perde qualcuno. Perché sappiamo, perché ricordiamo chi siamo e da dove veniamo. Forza Lazio, sempre!
Roma, 20/03/2023
Massimiliano Rossi