Di Umberto Chiariello
IL TEMPO INTERIORE
Ricordo che Luciano De Crescenzo in un suo film faceva dire a se stesso nei panni di Don Carlo, un prete: “Il tempo è una convenzione, serve solo a sapere che ora è”.
Ed aggiungeva: “Esiste un tempo esterno ed un tempo interno: il tempo esterno è quello degli orologi, quello dei calendari, ed è uguale per tutti. Il tempo interno invece è un fatto personale, nostro: è come il colore degli occhi, come il colore dei capelli, ci appartiene, ed è diverso da persona a persona”.
Ovviamente, non è un pensiero originale quello dello scrittore e cineasta napoletano, ma solo la vulgata del pensiero degli antichi greci, propriamente di Democrito, di Zenone, non il terzino dell’Atalanta di qualche anno fa, non proprio un massimo pensatore, ma un filosofo passato alla storia con il paradosso di Achille e la Tartaruga.
Perché penso spesso al tempo come lo racconta Luciano De Crescenzo?
Perché sovente mi sorprendo a pensare che il tempo è solo una convenzione, in quanto in realtà il nostro tempo interiore si dilata e si contrae a dismisura, che non conta quanto tempo sia passato effettivamente, conta quanto sia stato percepito.
Ne ho le prove. Perché? Perché ho giocato in porta. O bella, direte! E che c’azzecca, come diceva un famoso magistrato molisano?
Perché proprio giocando in porta ho la prova provata di come si possa dilatare il tempo nella propria mente, frazionandolo ad libitum. E quello che per tutti è una frazione di secondi per te, al momento e poi nella memoria, ti sembra un’infinità di azioni e pensieri scomposti e dilatati a dismisura.
Se non ci credete seguitemi, uomini di poca fede.
GUARDO GIORGIO
Sono attaccato alla rete del campo di allenamento dove suda e si allena Giorgino. È il giorno dei portieri, il lunedì, affidato alle mani esperte di Giacomo Zunico, portiere di lungo corso che una volta avrei voluto prendere a schiaffi all’uscita del San Paolo perché con le sue parate aveva fermato il Napoli di Maradona sullo 0-0, lui difensore estremo del Lecce. Ed invece finii per intervistarlo.
Ora siamo amici, allena mio figlio, ed ho scoperto il suo più grande rimpianto: poteva approdare al Napoli di Maradona, magari strappare la maglia a Giuliani e vincere da protagonista il secondo scudetto azzurro (in effetti per un periodo l’ex veronese ebbe una crisi e perse il posto), ma il presidente Albano era venuto meno all’accordo con Ferlaino e non lo aveva fatto partire da Catanzaro.
Oggi ha un’accademia dei portieri, e sta plasmando il mio giovane virgulto che volentieri si adatta ai suoi insegnamenti e sbuffa e suda tra una capriola ed un tuffo agli ordini del bravo Giacomo, che in campo è il più ragazzino di tutti, e tira meglio di tanti centravanti di professione.
Ad un certo punto Giorgio fa un volo pazzesco nel sette alla sua destra e devia quasi all’incrocio un tiro del perfido Giacomo, che ha un ghigno soddisfatto degno del Gruppo TNT, che i cultori di fumetti della mia generazione ben conoscono.
IL CAMPO SPES
In quel momento, come segno del destino, sul mio palmare compare un messaggio della comunità di Facebook. Un mio vecchio compagno di campo mi ha ritrovato e mi saluta: come sta il mio portierone?
Ripenso a lui, ad Alfredo, al mo grande terzinaccio, il terrore di tutti gli attaccanti. Mordeva peggio di Gentile, il Feroce Saladino. E ripenso a tutti i miei vecchi compagni di squadra.
La mente mi parte, ed il volo d’angelo di Giorgio mi riporta nel tempo ai miei 15 anni, al magico (per me, per noi che lo abbiamo calcato) campo in terra battuta della SPES Battipaglia, quello dei preti veronesi scolopiti, mi pare fossero, dove giocavamo il campionato allievi.
IL TERRIBILE PONTECAGNANO
Questa domenica mattina siamo tesi come corde di violino.
Dobbiamo affrontare il Pontecagnano, la nostra diretta rivale per la testa della classifica (oggi non ricordo più chi stesse avanti, mi pare che fossimo appaiati, o un punto sopra).
Scontro al vertice, scontro tra titani, penso nella mia mente di ragazzo che enfatizza tutto manco fossimo al cospetto di Real Madrid-Barcellona.
E quando arriva il Pontecagnano in me si svegliano ricordi potenti e mai sopiti dei miei 11 anni. Un nervo scoperto.
L’ORATORIO DI PADRE PACE
Pontecagnano per me da piccolino era stata la tappa dei sogni, il far parte della “Nazionale”.
Non sono impazzito, è la verità, chiedete a Padre Pace che ci governava all’oratorio di via Luigi Guercio a Salerno.
Noi avevamo il nostro campionato interno, quello oratoriale appunto, sul campetto adiacente la chiesa, dove c’erano ragazzi fortissimi, di cui ricordo ancora tanti nomi, da Peppe Vitale a Scarcella, da Alfredo Fraunfelder ad Amelia.
Ci sentivamo fortissimi, loro erano fortissimi. Io in verità ero piccolino, l’ultima ruota del carro, nessuno sapeva che ambivo giocare in porta, ero quello scarsino, di buona famiglia, quello che nei “tocchi” non si sceglie mai, che pure deve giocare però, perché Padre Pace imponeva la regola che dovevano giocare tutti.
Nessuno sapeva della mia feroce determinazione.
Sapevano solo che ero quel bambino strano, un po’ isolato perché non parlava in dialetto, che li aveva portati al successo in una specie di “Chissà Chi Lo Sa” oratoriale, facendo vincere il nostro oratorio all’ultima domanda sulla squadra avversaria perché solo lui sapeva della vittoria di Custoza nel Risorgimento italiano, già amante in quinta elementare dei libri di storia, roba pallosa per gli altri, che pur stavano alle Medie.
Un secchione insomma, ma col calcio per favore, che stesse a casa.
Non sapevano che in realtà io trapanavo le scatole a mia madre ed al mio paziente vicinato, giocando da solo in casa in un lungo e spazioso corridoio del nostro appartamento facendo continuamente, serialmente, palla e muro, palla e muro, tiro e tuffo, tiro e tuffo, a destra ed a sinistra, e così via, emulando quelle immagini sfocate alla TV in bianco e nero dei miei idoli napoletani, di Bandoni prima e di Zoff poi, quei guanti neri di lana, divisa rigorosamente tutta nera, sguardo serio da friulano, ed io giù, su e giù, a volare e bloccare.
Finché un giorno avevo trovato il coraggio e mi ero messo in porta, pur piccolino di statura, stufo di fare la riserva avanti. I portieri non bastavano mai.
Ma chi l’ha detto che solo i giganti possono volare come angeli?
Zamora era il più grande di tutti ed era piccolino, Combi pure, nei miei anni d’oro furoreggiava il bassino Tancredi, a Salerno Valsecchi, ma… non era così, o perlomeno non è più così. Oggi tutti giganti.
Nonno Lello, tu che dall’alto del tuo fisico statuario di 1,81 che hai donato le stesse gambe lunghe a mio figlio Giorgio, salvalo da me e dal mio razzente papà Renato, fallo crescere sano e forte, soprattutto lungo, tanto lungo, il mio Giorgino!
Insomma, ero finito tra i pali.
Il portierone era il mio compagno di classe Enzo Marano, bella struttura, che col fratello era uno dei punti di forza della “Nazionale”.
Ma quale Nazionale? Quella del nostro oratorio, ovvio, (lo so che si dice rappresentativa, ma noi la chiamavamo “Nazionale”, che ci posso fare).
Perché l’evento dell’anno era a fine stagione nel mese di maggio – giugno andare a Pontecagnano con i migliori per affrontare l’oratorio di là, che era fortissimo, di un altro pianeta.
Cominciai a volare, vola oggi che vola domani, la mia fama cresceva, e cresceva, fino a che in rappresentativa, in Nazionale, come dicevamo noi, fummo convocati Enzo ed io, come sua immediata riserva!
Che scoppola che prendemmo in quella landa di periferia, in quello che a me sembrava l’Eldorado del calcio!
6-1 perdemmo, nonostante gli Amelia, i fratelli Marano, i fratelli Vitale, gli Scarcella, i miei presunti campioni che non toccarono terra.
Primo tempo 4-0, ed io contento in panca, e chi si muove? Quelli ci stanno facendo neri, sono mostri!
Sul 5-1 Padre Pace, il mister, mi fa: muoviti, entra. Io? Con la faccia smunta ed impaurita di un attore per caso su un set porno che si trova a rivaleggiare con Rocco Siffredi. Non sono all’altezza!
Entra su. Vitale il Grande, che era uscito acciaccato e mio grande fan, mi butta in campo, addosso al fratello Peppe, mio terzino e tutore.
Vai e para! Io mi tuffo subito, la prendo! Gran parata a terra, sulla mia destra, in calcio d’angolo.
Mi esalto, quelli vanno all’arrembaggio, chi sarà sto piccoletto che ha l’ardire di fermarci?
Mi fanno gol, uno solo, la partita finisce 6-1, ma ne ho parate, altroché, esco vincitore morale, tutti ad abbracciarmi, Padre Pace mi sorride, ma io non vedo l’ora di correre a casa e dirlo a mamma!
IL PERICOLO INCOMBENTE
Sono questi i ricordi che mi affollano la mente questa mattina ora che ormai, giovane e forte, sono portiere titolare della mia importante squadra a Battipaglia, inamovibile e considerato, e mi appresto a mettere i guanti e scendere in campo.
Tremo in realtà. Nell’invincibile armata di Pontecagnano non so se ci sono alcuni di quei mostri oratoriali che mi avevano atterrito anni prima, temo fortemente di si. Ma di sicuro ci sono le stelle del torneo, Strianese, secco e lungo, una mezzala con lancio sfavillante, a comandare lì in mezzo, e soprattutto lui, il mio omonimo Umberto, il terrore del Salernitano, il piccolo Riva, come lo chiamavano, 42 gol in 28 partite: il Pellegrini.
Il mancino più forte che abbia mai visto calciare, uno che mi ha spezzato tutti e due i mignoli. L’avrò affrontato decine di volte, decine di gol subiti.
Staccava di testa da Dio, 1,80 di roccia pura, veloce e saettante, e quel sinistro a volo, Madonnina mia, che castigo.
Speriamo che non gli diano punizioni dal limite, questo è Rombo di Tuono davvero, Gianni Brera maledetto, ma non è che invece di Riva hai cantato le lodi di ‘sto dannato figliolo non della Bassa, ma del Basso Salernitano?
Lo marcherà come al solito Franco Procida (a quei tempi di marcatura a uomo, numero 11 significava immancabilmente ala sinistra di punta, e numero 2 il terzino destro adibito a marcare l’11), ma il nostro Franco è una furia sulla fascia, un emulo di Rocca Kawasaki, gioca all’olandese, (la moda del momento), ma di marcare a uomo proprio se ne infischia, ed io dalla porta a gridargli di tutto, a smadonnare sul campo dei preti, “ma come, il figlio del professore, quello che va bene a scuola, fa pure il ginnasio, dice queste parolacce”….
“Prendilo, marcalo, acchiappalo, testa di cazzo, fanculo Frá, quello se ne va, che cazzo combini”, e così via…
E Franco il panettiere (l’ho rivisto dopo tanti anni e stretto in un abbraccio da amico per sempre), zitto e muto, a sbuffare e sganciarsi, infischiandosene dei richiami. Peggio di un mulo.
“Tenetelo, per favore tenetelo”, ma se non diventa giocatore questo, chi mai? Urlavo e pensavo.
Mai, non è arrivato mai, misteri del calcio, eppure ne ho visti di ciucci in serie A…
LA PARTITA DELLA NONNA
Insomma, 0-0 al primo tempo, ce la siamo cavata finora in casa nostra, c’è pubblico, io mi sento sicuro, in forma, devo vendicare ancora quei 6 gol presi da bambino (io uno solo però), ma soprattutto i 6 gol presi all’esordio l’anno scorso, sempre a Pontecagnano, una maledizione che si ripete, e stavolta me li sono beccati tutti da solo o quasi, io che ero scappato di nascosto col sacco preparato furtivamente e messo in un angolo vicino all’ingresso, la mattina che c’era sul letto di morte la mia adorata nonna Erminia, per andare a giocare!
Mica si salta la prima di campionato, avevo pensato, per nulla al mondo. La notte l’avevo passata a vegliare, mangiando latte e biscotti con mamma, la povera nonna finalmente in pace. Ed avevamo persino riso per la fame che ci aveva preso alle 4 del mattino.
Prendi, incassa e porta a casa, e vai al funerale. Che bella giornata, chi la scorda!
In effetti, a pensarci bene, di gol ne avevo preso cinque. A pochi minuti dalla fine, esausto ed avvilito, avevo fatto la sceneggiata e mi ero buttato a terra, gridando: la rotula, la rotula, massaggiandomi il ginocchio!
Era corso il massaggiatore che subito mi aveva buttato la magica secchiata d’acqua salvifica che tutto guarisce… sulla caviglia!
Il calzettone zuppo d’acqua, la scarpa bagnata, io lo guardo e gli urlo: ma che cazzo fai? E quello mi guarda, inebetito: la rotula, non la caviglia! Ma capisco che lui non capisce. Il ginocchiooooo! Ma vaffa…
Mi alzo ed esco. Ed il mio sostituto si becca il sesto. Che giornata di merda.
Faccio di conto e penso: sempre 6 gol sono: 1 + 5 sempre 6 fa. E nulla vale a consolarmi che sono solo la metà della dozzina presi dalla mia squadra!
IL FATTACCIO
Ma stavolta col cavolo che mi fate 6 gol, siamo a casa nostra! Il primo tempo è già passato, indenne.
Umberto maledetto, ti odio e ti amo (odi et amo, il grande professore di latino e greco al secolo Guido De Paulis ci aveva spiegato di recente il meraviglioso carme di Catullo), guarda come ti squadro feroce incrociandoti davanti agli spogliatoio rientrando in campo, non ho paura di te (me la sto facendo nelle braghe).
Lui mi guarda sprezzante, sembra Alcibiade alla guerra, o uno dei 300 alle Termopili, con quella mascella quadrata, come Gigi Riva (ma il segreto sarà nella mascella?), quello sguardo da bomber, quella forza fisica di chi fa a botte con tutto e con tutti.
In effetti ha il colpo in serbo, il fetente.
Lancio di Strianese dalla metà campo in verticale, alto, io mi avvento in uscita, Ferraioli il mio libero tracagnotto che di testa non ne becca mai una (ma è svelto, furbo, cattivo e fortissimo tecnicamente, un piccolo Baresi diremmo oggi), corre a proteggermi, l’Umberto come una faina si prepara allo stacco.
Grappolo in area, io prendo la palla, sono sicuro, la sento sul pugno, ma sento un dolore pazzesco, e precipito al suolo. Sento che qualcosa non va, la palla ha colpito il pugno ma ho sentito una carambola mentre tutto attorno a me si fa buio.
Il disgraziato è saltato a ginocchio alto e mi ha preso in pieno nelle palle, sbatacchiandomi al suolo, la palla ha colpito il mio pugno ma è finita di carambola sulla sua nuca e terminata in porta.
Io a terra frastornato e dolorante, lui che esulta, l’arbitro che assegna il gol tra le proteste di Ferraioli che ha visto tutto.
Vuoi uscire? Stai per vomitare? Lasciatemi, via! Stronzo, stronzo, grido al Pellegrini, arbitro era fallo, macché, manco mi sente, testa di cazzo, da qua non mi muovo, grido al massaggiatore che era accorso gridando al mister di sostituirmi.
Il tempo di alzarmi, sono ancora confuso, ho i conati di vomito, ma resto al mio posto, il tempo che quel maledetto fa 2-0, sempre lui, tiro immarcabile stavolta. E Franco Procida che ancora una volta si è perso la targa.
Lo volete prendere, sbraito come un ossesso, la bava alla bocca, gli occhi da fuori, i compagni che mi sopportano e pensano… poverino, gli girano le palle per davvero, che botta che ha preso.
Non può finire così, non può…
IL TEMPO DEI GRECI
Ed ecco che mi soccorre il tempo di Parmenide.
Il solito lancio dalla metà campo di Strianese, corre l’ossesso spalla a spalla con il difensore, incrocia il sinistro ed accolla il pallone, spara un bolide sul lato opposto verso il sette alla mia sinistra. Che tiro, che gol!
Sto cazzo!
Io scatto senza pensarci, riflesso automatico, faccio inconsapevole la scelta giusta, niente mano di richiamo, il tiro è forte e teso dal basso verso l’alto ad incrociare, l’unica scelta è andare ad una mano, aperta, di sinistro, alla massima estensione a coprire l’angolo, faccio tutti questi pensieri, gli attimi sono lunghi, eterni, la palla arriva, io sono in volo, mi sento leggero, sospeso, dritto parallelo al suolo, la mano che si inerpica, mi raccomando, polso rigido se no quello te lo piega, non arrivarci con la punta delle dita, metti il palmo se ce la fai, il guanto ti proteggerà, te lo ha dato Dino Zoff, para da solo, è la bufala che ti sei inventato con i compagni, è solo il guanto del portiere della Primavera del Napoli che te l’ha regalato, ma farà comunque al caso, sono ancora in volo, ma sto pallone arriva o no, eppure è una bomba, l’impatto avviene, fragoroso, sento la botta e la contengo, non proprio il palmo ma il metacarpo, ma è solido e regge, i muscoli estensori delle dita sono tesi, come una pala rigida, il pallone arriva per fare sconquassi, trova opposizione, rimbalza e vola oltre la traversa.
Io cado al suolo ed in capriola plastica mi rialzo, faccia alla porta, sguardo truce.
E forse sorpreso.
Sale in bocca l’adrenalina giusta, il sapore dell’impresa, il cervello realizza, la seratonina ha lavorato bene: l’ho presa, l’ho presa!
Come in quel film che vidi anni dopo, credo “La partita perfetta”, Kevin Costner che ricordava il papà che gli diceva: sgombra la mente, sgombra la mente, ed il pubblico sparisce, così mi sentivo io. Nel silenzio più totale. Ovattato ai rumori esterni.
Ma come il tuono che arriva a scoppio ritardato, sento d’improvviso il boato della folla, quei cento, duecento cristiani che si sono assiepati attorno al campo ed alle reti di protezioni.
Il boato finalmente mi arriva, colgo che non è il solito boato, anzi lo sento cangiante.
Dall’urlo del gol alla strozza in gola del gol mancato, il boato assume toni di stupore.
Ma che ha preso? Che ha fatto quello?
Guardo di sottecchi verso il Pellegrini, lo vedo per la prima volta umano. Ha lo stupore dipinto negli occhi, mi guarda e mi fa ok con la testa, sei stato bravo, ma guarda questo… Scodinzola con la testa e se ne va.
Io urlo, un urlo liberatorio, verso ipotetici difensori che sono fermi ed ammirati: lo dovete “accirere” a quello!
L’arbitro sta accorrendo verso di me col sorriso sulle labbra, sente le mie parole ed assume una espressione di rimprovero e mi fa: “Portiere, non si dicono queste cose”…
Io rosso in faccia, preso con le mani nella marmellata, e che caspita, sono il figlio del Professore, mamma prepara i bambini ai canti oratoriani, mica posso fare il maleducato in campo…
“Scusi, scusi, sa”, farfuglio, “Era così per sfogare”…
“Vabbè, vabbè”, e si avvicina ancora.
Che mi vuole fare questo, ammonire, espellere? Mi spaventa, mi arriva a tiro.
Fa una cosa che mai avrei immaginato. Mi dà la mano e mi dice: “Bravo portiere, ben fatto”!
Vedo sullo sfondo Mister Rosario che si gratta la coppola siciliana, non ci crede neanche lui. Il sorrisino suo tipico, da sfottitore incallito, increspare le labbra. Io amo quell’ometto!
Avete capito ora? Vi ho dato la prova. Il tempo soggettivo non si misura, non si può. Quanto tempo sarà passato in quel volo? Frazioni di secondo, attimi. Quanto ci ho messo a scrivere? Minuti, tanti. Quanti al pensiero frazionato del momento? Infiniti.
La partita finisce 2-0, si va negli spogliatoio e c’è un silenzio surreale, doccia e via, nessuno parla, per fortuna mister Rosario decide di restare fuori.
Io prendo il sacco e scappo, devo correre al San Paolo a vedere il Napoli, vai al diavolo Umberto Pellegrini, mo’ ci pensa il Gringo Clerici a farmi rifare la bocca. Devo correre, il treno non mi aspetta.
L’APPLAUSO
Il martedì torno al campo, maledizione oggi la scuola non finiva più, prendo la solita Sita da Eboli, corro a casa, mangio in piedi, prendo il sacco, bacio mamma e papà, solito scappellotto al povero Corrado, mio fratello minore e mia vittima sacrificale, e via al campo, non fare tardi che quello già sta come una belva, infatti – oh cazzo! – è sulla porta che mi aspetta, sono l’ultimo, sono certo, ma non sono in ritardo, sono le 14:30 in punto, ci metto un attimo a spogliarmi, ti prego non mi “cazziare”.
Abbasso la visiera sugli occhi per non incrociare il suo sguardo, ora arriverà la ramanzina alla squadra per la sconfitta, farfuglio “Buongiorno Mister”, ed entro, lui dietro di me, ho le spalle contratte per sentire le sue urla, e lui che fa?
Mi stava aspettando, con tutta la squadra. Fa partire l’applauso, io resto sgomento, mi guardo attorno, e sento le pacche sulle spalle di tutti. Ma che hai preso? Ma come hai fatto? Ma lo si che hai fatto un volo pazzesco? Ma era una bomba! Ti rendi conto che manco Zoff..? Gliel’hai fatta vedere a quello!
Io non ho vinto un cazzo, nella mia vita di portiere, ma quella parata, quell’applauso, quei complimenti li ricorderò finché campo.
Mister Rosario fa: con un portierone così andremo a vincere a Pontecagnano, sveglia banda di addormuti, forza, al lavoro. Tutti in campo!
Io non esco, mi siedo, sopraffatto dall’emozione. Mondo, fermati adesso, voglio scendere!
Andremo a Pontecagnano.. Lo rivedrò, il mio amato nemico. Ma quella è tutta un’altra storia da raccontare….
SVEGLIA PAPA’
“Papà, ho finito l’allenamento, papà, mi senti?” È Giorgio che mi chiama, tirandomi bruscamente fuori dai ricordi.
“Come sono andato? Andiamo via? Faccio la doccia?”
“Hai volato come un angelo, figlio mio. Sì, falla”. Lui contento si avvia, snello e sottile, io dietro sento la lacrima bagnarmi la guancia, tiro su gli occhiali scuri da sole.
Ora non sono più il figlio del Professore, ma sono Il Giornalista, agli occhi di tutti. Decoro innanzi tutto.
Vero papà?
Napoli, 20 aprile 2015
© Umberto Chiariello