“[Gigi Meroni] era il simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un Paese di quasi tutti conformisti sornioni”. Queste parole di Gianni Brera esemplificano l’essenza di Gigi Meroni, indimenticato fuoriclasse granata, nato esattamente 78 anni fa, la cui esistenza fu spezzata quando aveva appena 24 anni.
Questo ragazzo comasco ha vissuto la sua breve vita in anni che hanno preceduto un cambiamento epocale nella storia italiana. Per descrivere la figura di questo eccentrico calciatore italiano bisogna andare ancora più indietro.
L’opera è nata in Italia alla fine del XVI secolo e si è presto diffusa in gran parte dell’Europa. Una forma d’arte che ha resistito alla prova del tempo e che occupa ancora un posto importante nella cultura moderna. Tre delle più famose furono partorite dal leggendario compositore Giacomo Puccini, il cui triumvirato – Madame Butterfly, Tosca e La Boheme – portò la tragedia sul palco e la mise a nudo per il suo pubblico estasiato. Quest’ultima raccontava la storia di un gruppo di bohémien che vivevano insieme lottando per sopravvivere e l’amore e la perdita che avevano vissuto.
Tale tragedia non è stata confinata solo al palcoscenico. Molti club di calcio nel corso degli anni hanno vissuto il dolore, ma nessuno più del Torino. L’incidente aereo del 1958 a Monaco di Baviera, in mezzo alla neve, che causò la morte di 23 passeggeri a bordo del volo British Airways del Manchester United, rispolverò ricordi estremamente dolorosi ai tifosi dei Granata che piansero il Grande Torino che perì nella nebbia di Torino.
Il comandante di quello sfortunato volo della Italian Airlines era il tenente colonnello Luigi Meroni (ironia della sorte, un omonimo), disorientato dalla mancanza di visibilità mentre l’aereo scendeva. Veloce come un lampo, la Basilica di Superga gli apparve davanti e, senza il tempo di poter virare la traiettoria, l’aereo si schiantò contro il muro della chiesa, uccidendo i passeggeri a bordo.
L’era della più leggendaria squadra di calcio italiana era finita, eppure i fasti del passato sembravano essere rinverditi quasi 15 anni dopo sotto forma di un altro Luigi Meroni. Faro luminoso in un’epoca buia del calcio, Gigi riuscì a risollevare quasi da solo un club che non aveva ancora metabolizzato quel tragico lutto. Tuttavia, anche la sua vita fu spezzata troppo presto.
Meroni nacque a Como 24 febbraio 1943. Era il secondo figlio di Emilio e Rosa e fu cresciuto prevalentemente dalla madre dopo la morte del padre, quando aveva solo due anni. A quel tempo, l’Italia era in preda all’austerità, il Paese stava affrontando un futuro sconosciuto dopo la distruzione e la sconfitta del secondo conflitto bellico. Le prime elezioni generali del dopoguerra videro la Democrazia Cristiana fare breccia nella società del dopoguerra che, nel 1948, aveva ottenuto oltre il 48% dei voti, dando inizio alla Prima Repubblica.
Gigi Meroni era figlio di quel contesto sociale e fu un assiduo frequentatore della chiesa, vivendo un’educazione conservatrice insieme ai fratelli Celestino e Maria. Eppure il giovane Gigi era diverso dalla maggior parte dei bambini della sua età. L’amore per la pittura e l’arte portò sua madre a definirlo “uno spirito libero”. Era un calciatore “beat”, che incarnò il celebre spirito degli anni ’60. Un antesignano del ’68.
Da adolescente giocava nella squadra di calcio del suo oratorio, a San Bartolomeo, e lavorava in una fabbrica di cravatte di seta. In Gran Bretagna erano arrivati gli swinging sixties: flower power, amore libero, rock and roll e pensiero spensierato erano all’ordine del giorno. L’Italia era ancora un mondo a parte. Eppure il calciatore lombardo sentiva l’influsso dei movimenti d’oltremanica.
“Scrostava la muffa dalle abitudini, smascherava le ipocrisie. Un tenero rivoluzionario che dava il meglio di sé nel lavoro e poi rivendicava libertà totale” – Candido Cannavò
Nel Belpaese il boom economico aveva salvato la gente dalla rovina negli anni ’50. L’industria automobilistica esplose, portando masse di persone nei centri industriali del nord. Non era ancora arrivato “il tempo dei fiori” nei capelli. Il Paese si stava focalizzando sul rafforzamento della sua potenza industriale.
Nel 1961 Gigi Meroni fu ingaggiato dal Como, squadra della sua città, con cui esordì ad appena 18 anni nella serie cadetta. Le sue prestazioni all’esordio da professionista portarono il Genoa a puntare su di lui. La prima stagione sotto la Lanterna fu da apprendistato, mentre nella seconda il giovane ragazzo lombardo esplose. Il suo bottino, ad appena 20 anni, fu di 27 presenze e 6 reti in massima serie. Numeri notevoli per una giovane ala, in un contesto in cui imperavano difensivismo, catenaccio e speculazione.
Tuttavia, i riflettori su Meroni furono puntati anche su ciò che faceva fuori dal rettangolo di gioco. Il ragazzo iniziò ad attirarsi le ire della stampa dell’epoca, benpensante, bacchettone, politicamente corretta e ipocrita. Sempre Oltremanica, Beatles agitavano le loro acconciature davanti ai fan urlanti di tutto il mondo e i media italiani avevano notato che il barbuto Meroni aveva qualcosa in comune con loro.
All’epoca era uno scandalo portare i capelli fino alle orecchie. Edmondo Fabbri, CT della nazionale B, gli intimò di rasarseli. Il calciatore rifiutò e i media italiani non persero l’occasione per esporlo al pubblico ludibrio.
Le prestazioni in campo erano sempre più straordinarie. Fu chiamato dal Torino, sulla cui panchina si era insediato Nereo Rocco. Il paron, come noto, era uomo tutto d’un pezzo. Con il tecnico triestino in panchina e l’esterno comasco in campo, la folla dello Stadio Comunale si infiammava. Il Toro giunse al terzo posto.
Quell’esterno dotato di dribbling ubriacante, velocità fulminea, tiro coordinatissimo e velocità fuori dall’ordinario, entrò immediatamente nel cuore dei tifosi. Questi ultimi lo battezzarono La Farfalla Granata, anche se alcuni dei tifosi più anziani lo nominarono affettuosamente Calimero.
Nella seconda stagione in Granata, nonostante il decimo posto della squadra di Rocco, Meroni ricevette la sua prima convocazione in nazionale. Edmondo Fabbri, al timone della nazionale maggiore, riprovò a convincerlo a tagliarsi i capelli, ancora una volta invano.
E la stampa italiana non perdeva l’occasione per fargli la morale. I suoi gusti personali in fatto di stile furono ancora una volta discussi. I giornalisti si chiedevano se la sua barba indicasse legami con il comunismo, basandosi semplicemente sul fatto che rivoluzionari come Che Guevara e Fidel Castro avevano visi irsuti. Prima della convocazione in nazionale, Meroni cercò di allontanare i riflettori, affermando che l’amante convivente Cristiana Uderstadt fosse sua sorella.
Meroni aveva acquistato un loft a Piazza Vittorio, dove trascorreva il tempo libero tra i suoi amori: la pittura e il jazz. La sua relazione con Cristiana Uderstadt si interruppe bruscamente, con l’amante respinta che corse tra le braccia di un anziano regista e presto l’improbabile coppia si sposò. Non passò molto tempo, tuttavia, prima che i giovani amanti tornassero l’uno tra le braccia dell’altro. La Uderstadt fuggì dal matrimonio prima che potesse essere consumato, ma in un paese rigidamente cattolico, una donna sposata che “vive nel peccato” con un calciatore amante dell’arte riscontrava la disapprovazione generale.
Convocato ai Mondiali del 1966, l’esterno granata disputò solo la partita contro l’URSS. Nel match contro la famigerata Corea del Nord, fu lasciato in panchina dal CT Fabbri, tra le polemiche, che si acuirono a seguito dell’infortunio di Giacomo Bulgarelli. All’epoca non erano consentite sostituzioni. La stampa italiana, solitamente “incendiaria”, cercò un capro espiatorio e scelse Meroni, sostenendo che la sua assenza dalla partita decisiva era dovuta a uno scontro con Fabbri per il suo rifiuto di tagliarsi i capelli.
Anni dopo, Fabbri rivelò che l’assenza di Meroni non era dovuta alla lunghezza dei suoi capelli, ma alla sua mancata volontà di seguire le istruzioni durante la partita con l’URSS. La tattica annoiava l’esterno comasco, il quale giocava d’istinto, mostrando lo stesso estro artistico sia con la palla sia sulla tela. La massima popolarità tra i tifosi del Toro fu invece raggiunta dopo un gol contro l’Inter di Helenio Herrera. Le sue abilità non passarono inosservate ai rivali cittadini della Juve.
Il presidente Orfeo Pianelli fu costretto a rifiutare un’offerta della Vecchia Signora, che aveva precedentemente accettato, pari a 750 milioni di lire, cifra esorbitante per l’epoca. Il motivo? Alla FIAT, azienda di proprietà della famiglia Agnelli, lavoravano tantissimi tifosi del Toro. Questi ultimi minacciarono di scioperare se il loro idolo fosse stato venduto alla Vecchia Signora. Si dice che molte nuovissime FIAT 128, appena uscita dalla fabbrica, fossero state rigate da tifosi granata…
Meroni in campo era diventato un beniamino dei tifosi – un eroe che rivaleggiava con quelli morti a Superga – e fuori, attendeva l’annullamento del matrimonio della Uderstadt per potersi finalmente sposare con lei. La notizia arrivò la mattina in cui Meroni partì per lo Stadio Comunale per il match contro la Sampdoria.
La Farfalla Granata dipinse calciò e disegnò arabeschi di pregevolissima fattura, tra la gioia del neo allenatore… Edmondo Fabbri. Quel 15 ottobre 1967 fu l’ultima partita di Gigi Meroni. Mentre era in compagnia dell’amico Fabrizio Poletti, fu travolto da un auto in corso Re Umberto. Meroni morì poche ore dopo, all’Ospedale Mauriziano. Poletti rimase illeso.
Alla guida della vettura c’era Attilio Romero, che decenni dopo divenne il presidente del Toro. La Farfalla Granata chiuse quindi definitivamente le sue ali. Il sacerdote che ne celebrò il funerale fu oggetto di iconoclastia da parte della solita stampa italiana finto-perbenista e puritana dell’epoca. “Come aveva osato quel prete celebrare un funerale religioso di un uomo così libertino?”.
“Dio scelse il migliore, ma ci portò via l’anima, il più forte, il calciatore che ci avrebbe fatto diventare grandi” – Aldo Agroppi
La perdita del loro fuoriclasse ha segnato profondamente i tifosi di un club che si sta ancora riprendendo dagli orrori di Superga. Più di 20.000 persone parteciparono al suo funerale, una arrivò addirittura a irrompere nella sua tomba, non volendo credere che fosse morto.
Quarant’anni dopo, il Torino ha eretto un monumento in onore di Meroni sulla strada trafficata che ha spezzato la sua vita in quella tragica sera di ottobre. È un monumento eterno per un uomo unico come il bellissimo insetto a cui è associato. Un calciatore il cui rifiuto di conformarsi ha segnato una linea di demarcazione nel calcio italiano.